GLI AMORI DI SUZANNA ANDLER
di Benoit Jacquot
In una coerente unità di tempo e luogo, dalla mattina fino al tramonto in una villa sulla Costa Azzurra, GLI AMORI DI SUZANNA ANDLER, dal testo di Marguerite Duras, è un film teatrale, trattenuto, impeccabilmente quanto algidamente costruito sulla presenza scenica e la voce inconfondibile della protagonista Charlotte Gainsbourg. Un ritratto di donna, come sempre nella poetica della scrittrice francese, che restituisce tutta l’ambiguità e l’inconsistenza delle relazioni sentimentali borghesi, condannate a un’alienazione degna di Antonioni. Il testo è stato già portato al cinema nel 1977 dalla stessa Duras col titolo BAXTER, VERA BAXTER, ma non era tra i suoi preferiti e Benoît Jacquot, che a 20 anni era stato suo aiuto regista (oggi ne ha 75), riferisce come la pièce la mettesse addirittura a disagio. Giudizio non condiviso dal regista, che da tempo aveva in animo di farne una nuova riduzione, convinto di poter mettere in luce il valore del testo.
Scarna, quasi inesistente la trama. Una moglie deve decidere se prendere in affitto una grande e costosa villa dalle parti di Saint Tropez, mentre il facoltoso marito si trova altrove con l’amante e lei stessa è accompagnata da un giovane (Niels Schneider) con cui è in corso un gioco di seduzione che potrebbe preludere a qualcosa di più. È la prima volta che Suzanna prende in considerazione la possibilità dell’adulterio, benché sia stata sempre tradita dal consorte.
L’impianto teatrale, il contrappunto di dialogo e silenzi tra i due personaggi, le atmosfere sospese, a tratti oniriche, l’evocazione di altre figure fantasmatiche funzionali alla traiettoria della coppia, tutto tende a comporre una sorta di setting psicoanalitico. A questo si aggiunge un senso di minaccia vago ma palpabile, che sfocia in un finale quasi da thriller. La messinscena non lascia adito a digressioni per lo spettatore, intrappolato nel gioco crudele della solitudine femminile. È evidente la critica del matrimonio borghese, sovrastato dalla menzogna e dall’ipocrisia, che contiene anche una riflessione sull’incapacità di imprimere un cambiamento radicale alla propria vita, di conquistare la propria libertà, irretiti dal denaro e dall’agio: temi del teatro scandinavo aggiornati alla sensibilità del Maggio 1968, anno della pièce: Gainsbourg, sempre avvolta in una pelliccia che, al di là della palese simbologia borghese, sembra non poterla riscaldare, è una donna a metà che fa i conti con la propria rivoluzione incompiuta.
Cristiana Paternò