Scheda Film Consigliato
Cosa resta della rivoluzione
Titolo originale: Tout ce qu’il me reste de la révolution …Sceneggiatura: Judith Davis, Cécile Vargaftig …Fotografia: Émile Noblet …Montaggio: Clémence Carré …Interpreti: Judith Davis, Malik Zidì, Claire Dumas, Simon Bakhouche, Mireille Perrier …Produzione: Agat Films, Apsara Films …Distribuzione: Wanted … Francia 2019 …colore 88’
Recensione Film
Cosa resta della rivoluzione
Di Barbara Corsi
Judith Davis è la figlia di Yvon Davis, regista del Théâtre de Gennevilliers e fondatore della società di produzione Agat Films. Dopo una laurea in filosofia ha cominciato a recitare a teatro e al cinema, fondando anche un collettivo teatrale chiamato L’avantage du dout. Il suo primo film da regista – e non solo: anche da sceneggiatrice e attrice protagonista – è tratto proprio da una pièce teatrale messa in scena dalla sua compagnia, Tout ce qui nous reste de la revolution, c’est Simon (2009), frutto delle riflessioni comuni sull’eredità politica del ’68 e il ruolo dell’arte oggi. Tutto questo percorso si riflette sulla struttura del film, una commedia agrodolce dal forte impianto teatrale, dove si filosofeggia molto sulla perdita degli ideali politici e il ritorno al privato, sull’alienazione del lavoro moderno e sui rapporti fra le generazioni. Quest’ultimo è, in effetti, l’obiettivo maggiormente centrato dalla Davis, il cui alter ego Angèle si confronta continuamente con coloro che, avendo vissuto il ’68, si sentono i depositari del significato di rivoluzione. Angèle si porta dentro la sensazione di essere nata troppo tardi, però cerca di ‘portare avanti il suo discorso’ – come si sarebbe detto negli anni settanta - attraverso gli incontri di un collettivo che serve più che altro allo sfogo di disagi personali. La coerenza di Angèle coincide con la rigidità morale, la sciattezza estetica, il manicheismo dei doveri, al punto di negare alla sua vita una dimensione sentimentale che potrebbe distrarla dalla lotta, sull’esempio del padre, comunista tutto d’un pezzo. Il suo equilibrio comincia a vacillare quando incontra Said, giovane maestro molto creativo che sembra uscito di peso dal cinema francese degli anni sessanta. Da quello degli anni ottanta arriva invece Mireille Perrier (Boy meets girl di Léos Carax, Un mondo senza pietà di Eric Rochant), l’attrice che interpreta Diane, la madre di Angèle, ritiratasi a vivere in campagna. L’abbandono, o piuttosto la narrazione paterna di questo, ha prodotto una ferita nella figlia che forse è all’origine di molti suoi comportamenti. Dalla psicanalisi familiare alla nevrosi generata dalla competitività sul lavoro, non dimenticando i cenni alla metropoli multietnica, il film della Davis passa in rassegna tutti i problemi della società contemporanea senza riuscire a compiere quella piccola ‘rivoluzione’ del linguaggio cinematografico che sarebbe lecito aspettarsi, viste le ambiziose premesse. A parte le lunghissime scene dei dibattiti del collettivo, mutuate dalla pièce teatrale ma poco sostenibili al cinema, lo sguardo (molto fisso nella performance attoriale) della Davis è indeciso come la sua protagonista, ma soprattutto guarda al passato, all’irraggiungibile anarchia della Nouvelle Vague o a certi irresoluti personaggi femminili rohmeriani. Eppure, uno dei migliori spunti del film, parzialmente sprecato, è la demistificazione della generazione del ’68, dei molti che sono stati incendiari a vent’anni e ora sono gelosi del proprio potere, oppure vivono da reduci, ricordando i bei tempi andati.
Barbara Corsi